Sul’art. 26, molto si e’ letto sin dai mesi successivi all’entrata in vigore del Regolamento FIC, che lo sviluppa nel modo seguente:“ l’indicazione del luogo di origine o provenienza e’ obbligatoria nel caso in cui si possa indurre in errore il consumatore in merito al paese di origine o al luogo di provenienza reali degli alimenti, in particolare se le informazioni che accompagnano l’alimento o contenute nell’etichetta nel loro insieme potrebbero altrimenti far pensare che l’alimento abbia una differente paese d’origine o luogo di provenienza. Si e’ inneggiato, su molta carta stampata e virtuale, a questa disposizione come baluardo strenuo a somma difesa del manufatto realizzato in Italia, ancor piu’ se declinabile come Made in Italy. (Sotto riportato integralmente una opinione di un illustre esperto di settore). Insomma un articolo 26 salvifico, che con spirito indomito, espugna la roccaforte del (mal)celato OSA ingannatore: l’etichetta alimentare ed i suoi arcani misteri. Ne beneficia il solito ignaro consumatore medio europeo. Non e’ proprio cosi’ a modesto parere della scrivente, tutt’altro!
E’ da chiarire subito, che il contenuto dell’articolo 26 non e’ una novita’, come alcuni hanno scritto con enfasi latina. Si tratta di un concetto noto, e che risale almeno al regolamento EC N. 178/2002 per il quale, si ribadisce che e’ necessario presentare un manufatto alimentare in modo corretto: per quanto attiene forma, confezionamento, e contesto in cui sono esposte le informazioni al consumatore per non trarre in inganno quest’ultimo (art. 16). Tutt’al piu’ si puo’ notare che il legistatore europeo ha operato in coerenza con le disposizioni antecedenti. Per quanto riguarda l’Italia esiste una disposizione normativa specifica, inerente il Made in Italy, il D.L. 99/2009 e s.m. (166/2009) per la quale si riporta:
Costituisce falsa indicazione la stampigliatura «made in Italy» su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l'uso di segni, figure, o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana, .ovvero l'uso di marchi di aziende italiane su prodotti o merci non originari dell'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine senza l'indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro Paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. ……..Chiunque fa uso di un'indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale «100% made in Italy», «100% Italia», «tutto italiano», in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione, al di fuori dei presupposti previsti nei commi 1 e 2, e' punito, ferme restando le diverse sanzioni applicabili sulla base della normativa vigente, con le pene previste dall'articolo 517 del codice penale, aumentate di un terzo.
Questo art. 26 non frena il fenomeno dell’Italian sounding nella sua portata planetaria, affatto. Il Reggianito argentino, il Cambozola tedesco e molti altri manufatti alimentari, rimarranno sul mercato internazionale. Malgrado la presenza di una dicitura “made in Germany” il prodotto “farloppo” godra’ del riflesso della eccellenza di un (per esemplificare) Gorgonzola lombardo o di un salame Milano autoctono. Inoltre, il Cambozola di turno sara’ coadiuvato da una congiuntura commerciale per possibile indisponibilita’ del formaggio italiano (in qualche sperduto villaggio svedese- ad esempio) nonche’ da un prezzo poco competitivo. E’ cosa nota che in Nord Europa, malgrado l’alto livello del tenore di vita dei cittadini, il consumatore medio sia incline all’acquisto di prodotti cheap. Del tutto diverso invece e’ il caso di un brand italiano (anche se acquistato da multinazionale straniera), che ha esportato in tutto il mondo una eccellenze alimentare. Esempio: uno per tutti il cioccolatino prediletto, in uno spot pubblicitario, da una raffinatissima lady in giallo, coccolata da un premuroso driver. E’ un masterpiece inespugnabile di qualita’ alimentare italiana. E tale si manterra’, anche se realizzato in Sudafrica, grazie a protocolli produttivi validati dalla ditta, con l’abnegazione di un fanatico religioso. Questi brand si autosostengono e vendono, Made in Italy da sempre, creando anche sinergie con altri prodotti che richiamano l’Italia (le bevande gli alcolici etc.) …
Pensiamo invece al caso di una bresaola della Valtellina (non protetta da disciplinare IGP) o a suo cugino di matrice “suina” : il fiocco di prosciutto crudo della Valtellina: prodotti ad altissimo valore aggiunto, realizzati con carni generalmente estere. La lista dei manufatti eccellenti realizzati con derrate straniere e’ infinita: il mondo dei vegetali con le preparazioni di funghi di provenienza extra CE, il mondo dei dessert a base di piccoli frutti (approvvigionati extra CEE).
Quando una ricca consumatrice norvegese leggera’ sfiduciandosi, che il fico di una deliziosa leccornia pugliese, acquistato in un costosissimio negozio di squisitezze importate dall’Italia, e’ turco o spagnolo, (perche’ l’Italia non ha abbastanza derrate per sostenere la trasformazione o semplicemente perche’ la meteorologia e’ stata funesta), che ne sara’ del futuro dei dipendenti della piccola realta’ produttiva italiana meridionale? Loro sopravvivono con gli acquisti degli stranieri. Magari si tratta di una azienda, famigliare, che resiste e lavora, malgrado lo stato, la criminalita’ e molto altro da qualche generazione. In quel dolcetto, fatto a mano, che esplode in bocca una tempesta di sapori e memorie aromatiche, c’e’ tutto il know how italiano, quello e’ il nostro “good value”, e’ il nostro petrolio. La tutela deve essere offerta al norcino italiano che, a Natale, Pasqua e ferragosto, sa trasformare sempre allo stesso modo, la carne estera: polacca o francese, in un salume prestigioso che nessuno e’ capace di copiare e per questo si esporta. Mi domando, come si dichiara il talebano difensore della indicazione dell’origine a tutela di queste realta’, che costituiscono il tessuto manifatturiero italiano? Se l’art. 26 comma 5 lettera f e 6, del Regolamento FIC si applica: le lasagne alla Bolognese saranno marcate di una indicazione per cui la pasta e’ fatta con farina canadese e il ragoȗt con carne bovina polacca e suina tedesca. Non abbiamo bisogno di una ipertrofia di diciture, pretesa da un insicuro politico: un regolamento sulla tracciabilita’ e sulla responsabilita’ degli OSA vigila sulla sicurezza alimentare. E’ sufficiente.
Nelle stagioni cui il raccolto e’ scarso o quando le orticole locali sono malate o sofferenti, o quando una malattia contagiosa coinvolge una filiera animale locale, il consumatore e’ pronto a consumare un prodotto che recita -indubbbiamente- la (tranquillizzante?) menzione dell’origine italiana in etichetta; ma che e' costituito da una derrata e’ sensorialmente scadente? Lo stesso consumatore, protetto dallo scudo armato della dichiarazione dell’origine dell’ingrediente caratterizzate e’ disposto a pagare un prezzo anche decuplicato di un prodotto alimentare, scarso per volere della matereologia (siccita’ o altro)? Naturalmente no, e ancora una volta, il sagace provvedimento sull’origine dell’alimento caratterizzante finisce per gabbare quell’OSA sedotto dalla promessa tutela (del politico paroliere). Il povero OSA, non solo si trova costretto ad acquistare un prodotto scarso qualitativamente e costosissimo, ma ha la certezza dell’invenduto con in magazzino i costi delle belle etichette con la menzione di origine. Forse non e’ casuale il fatto che la commissione europea come si evidenzia nel rapporto divulgato nel maggio 2015 non mostri particolare sensibilita’ nell’approfondire detto tema; mancano oggi gli atti dispositivi, a un anno e piu’ dall’entrata in vigore del regolamento. Forse si e’ compreso, con goffaggine e ritardo di aver intrapreso un sentiero ad ostacoli.
I manufatti protetti da disciplinare normato sono esclusi |
Fromage D'Ambert |
Fiocco di prosciutto crudo della Valtellina: un prodotto ad alto valore sinonimo di maestria di lavorazione e qualità' sensoriale. |
Caro sostenitore della menzione di origine dell’ingrediente caratterizzante sulla torta sbrisolona mantovana, o sull’erbazzone reggiano, io ho un certo languorino, sicche’ vengo a mangiare a casa tua, e con me tutti coloro che pagheranno le conseguenze del tuo zelo miope. Sappi che quando l’azienda delle bresaole non vendera’ piu’ nemmeno un etto di prodotto, a causa di un claim (es. fatto con carne polacca), stampigliato sulla facciata principale dell’etichetta, verra’ aperto un nuovo stabilimento (di bresaole) proprio nei paesi bollati come untori dell’Italian sounding. Costoro pero’, italiani e abituati a lavorare molto e parlare meno, NON faranno l’Italian sounding, ma faranno proprio l’Italian, a minor prezzo e agevolati da un legislatore cauto e lungimirante. La messa in etichetta dell’origine dei prodotti trasformati italiani e’ un becero iperbolico boomerang!
EUROPA – Obbligo di indicare il Paese d’origine sui prodotti ‘Italian sounding’
'Forse non tutti sanno che' –– il regolamento 'Food Information to Consumers' (1) ha introdotto una prima e importante novità, in tema di indicazione dell'origine dei prodotti alimentari, con conseguenze di rilievo sull'obbligo di indicare il Paese ove ha avuto luogo l'ultima trasformazione sostanziale, quando esso non coincida con quello da cui l'alimento appare provenire, anche in ragione del marchio utilizzato. Approfondiamo l'argomento.
Il regolamento UE 1169/2011 – nel confermare la generale facoltatività dell'indicazione del Paese di origine dei prodotti (2), dispone che "L’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza è obbligatoria: (a) nel caso in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento, in particolare se le informazioni che accompagnano l’alimento o contenute nell’etichetta nel loro insieme potrebbero altrimenti far pensare che l’alimento abbia un differente paese d’origine o luogo di provenienza" (articolo 26, Paese d’origine o luogo di provenienza, comma 2).
L'eurodeputata On.le Elisabetta Gardini, nella propria interrogazione scritta 2.2.2015 – oltre a chiedere la conferma della legittimità del progetto a suo tempo annunciato dal ministro Maurizio Martina di ristabilire in etichetta in Italia l'obbligo di citare la sede dello stabilimento di produzione (3) – ha richiesto alla Commissione europea di chiarire la sussistenza del dovere di indicare il paese di origine o il luogo di provenienza dell'alimento, ogni qual volta la sua omissione possa indurre in errore il consumatore sulla sua effettiva origine. Avuto particolare riguardo alle notizie che accompagnano la commercializzazione del prodotto, ivi compreso il marchio commerciale utilizzato.
Il Commissario Vytenis Andriukaitis, nella propria risposta del 27.2.15, ha chiarito l'obbligo di indicare l'origine del prodotto quando la sua omissione possa indurre in errore i consumatori a causa delle modalità di presentazione dei prodotti, anche in relazione dei marchi utilizzati (ai sensi dell'articolo 26.2.a). Vale a dire che in tutti i casi in cui un alimento venga commercializzato e promosso con un marchio italiano, e pur tuttavia esso sia stato realizzato in diverso territorio, deve essere precisato in etichetta il Paese di ultima trasformazione sostanziale del prodotto. Ne deriva l'obbligo di specificare in etichetta il Paese di origine dell'alimento ogni qualvolta il prodotto appaia come 'Made in Italy' – anche in ragione di un marchio che i consumatori associano all'Italia – e tuttavia sia stato realizzato altrove (c.d. 'Italian sounding'). Il consumAttore (http://www.greatitalianfoodtrade.it/news-food-times/editoriale-expo-2015-milano-e-il-ruolo-cruciale-dei-consumattori) ha perciò il sacrosanto diritto di sapere, per citare un paio di esempi, che una pizza surgelata a marchio Buitoni è realizzata in Germania, e che alcuni gelati Algida (http://www.greatitalianfoodtrade.it/news-food-times/algida-dopo-70-anni-lo-storico-marchio-italiano-inizia-le-vacanze) sono realizzati in Paesi diversi dall'Italia.
Le autorità di controllo come le associazioni dei consumatori hanno perciò il diritto e il dovere di pretendere, in tutti i casi in cui un alimento commercializzato con un marchio italiano non sia effettivamente prodotto in Italia, la citazione obbligatoria del Paese d'origine in etichetta. Sia pure in attesa che il governo italiano adempia ai suoi doveri – di adeguare la normativa nazionale in tema di etichettatura alla novella europea, e di definire le sanzioni per la violazione di quest'ultima – le imprese a marchio italiano che abbiano delocalizzato la produzione sono già ora consigliate di inserire in etichetta il Paese di ultima trasformazione degli alimenti.
Etichette trasparenti. Indicazione dello stabilimento produttivo: arriva la petizione
L'indicazione dello stabilimento in cui sono prodotti gli alimenti garantisce la sicurezza, l'occupazione e la tutela del Made in Italy. Per questo deve essere sempre presente in etichetta. Per scongiurarne la scomparsa, Great Italian Food Trade, assieme a ilfattoalimentare.it, lancia una petizione su Change.org.
Conoscere lo stabilimento produttivo di un alimento è essenziale per il consumatore. È infatti l'unico elemento che consente di distinguere i veri prodotti Made in Italy dalle imitazioni prodotte fuori dal Belpaese. Mozzarella, Parmigiano, Pizza. Le specialità più famose al mondo sono anche le più imitate. E sfruttando nomi che richiamano le eccellenze alimentari italiane (Italian sounding), queste brutte copie possono facilmente ingannare i consumatori in cerca del vero Made in Italy. Che è tale soltanto se prodotto in uno stabilimento italiano.
Una battaglia per il Made in Italy da condurre in tutto il mondo, firmando la petizione di Great Italian Food Trade. Facciamoci sentire!
Ritengo che sia meglio fornire una bassa produzione ma di un prodotto di qualità italiana pagata il giusto piu che una alta produzione di un prodotto importato e da noi trasformato . Io girando per stabilimenti alimentari , carni , frutta , aceti , frutta secca, confezionati vari , siccome non sono diretto mi danno poca importanza e noto , con estremo dispiacere, che il prodotto interamente italiano non esiste praticamente più . Eccezzion fatta per le micro produzioni di nicchia che sanno gia che non avranno futuro .
RispondiEliminaSalve Mr/Ms. Unknown, Io non credo che diciamo, sostanzialmente contenuti molto diversi, anzi. ELLA sostiene il made in Italy, il prodotto di eccellenza e di qualità'; la verità' e' che abbiamo gia' gli strumenti opportuni per usarlo. Possiamo gia' divulgare e urlare i nostri prodotti come 100% made in Italy, quando lo sono ed in questo la polizia giudiziaria opera in sorveglianza. A parte rarità', l'Italia non ha prodotti in quantita' che sono prodotti con materie prime italiane. Siamo solo dei grandi importatori, di carne, di frutta e verdura, non abbiamo spazio sufficiente per la coltivazione del fabbisogno di grano. Se dovessimo mangiare con il grano che abbiamo, mi consenta l'iperbole, ci affameremo. Un commento a latere: quando in Italia tutto il basilico e' afflitto dalla peronospora e non ce n'e' nemmeno un kg, e quello che c''e ' e' "toxic" per i trattamenti effettuati senza risultato alcuno, ma il basilico tunisino e' sano e gradevole: impedisco la realizzazione del pesto? Quando in Italia le carciofaie sono ghiacciate e i capolini sono marci, impedisco la produzione di vellutata di carciofi? Ha mai provato a fare una bresaola con carne nazionale e vedere cosa viene? Parliamo dei prosciutti nazionali: quali sono adatti a fare prosciutti commerciali? Avete mai visto un prosciutto fatto con la cinta senese? scivola per il grasso... Bene per il made in Italy e soprattutto bene per promuovere la manifattura italiana, con giudizio, con conoscenza delle nostre possibilità'. Ha visto lo stemma dei Savoia usato per certificare l'eccellenza italiana: .... "con il 50% di produzione italiana" quello si' che e' un'azione becera, una gabella del marketing per illudere ancora il consumatore. Bene per la nicchia, che deve avere il suo canale e la sua retribuzione sul mercato, ma non distruggiamo il mercato dei prodotti "italiani" soltanto perché' la miscela dei grani e' straniera e altro NON potrebbe essere. Grazie per questo commento che aiuta alla riflessione.
RispondiEliminaBuona settimana e.