E’ giugno inoltrato in Egitto, in un cortile infuocato al 10th of Ramadan del Cairo, l’incontro con un collega svela qualcosa di inaspettato. Atif arriva con la puntualita’ di chi non conosce il tempo: il suo sorriso bianco e ammiccante mi fa capire subito che ora non e’ tempo di negoziazioni, c’e’ qualcosa di piu’ importante. Mi schiude un pacchettino piatto e grande tanto quanto un quade
rno da scuola, ben avvolto, in carta di giornale stampata. E’ una piastra di basbusa, la torta di semolino bassa e molto dolce. E’ largamente diffusa in tutta la fascia mediterranea araba. Basbousa: che in Libano e’ chiamato nammoura, in Turchia ravani, e e che riceve una declinazione diversa in ogni paese di quella terra abitata d’uomini non beventi vin d’orzo. Il mio intendimento di “far rendere il tempo” sbriciolato da qualche etto molle di impasto sciropposo, sberleffo (apparente) al concetto di produttivita’occidentale. Per inevitabile deformazione professionale, lancio un baleno di sguardo al trasporto del dolcetto; devo applicare la ferrea par condicio e adotto la stessa modalita’ di screening delle materie prime (alimentari) europee. Quindi: per quanto attiene la verifica delle condizioni del mezzo di trasporto, e’ da dire sicuramente che il metodo: HACCP qui deve ancora arrivare. Il colore dei sedili della macchina e’ “non pervenuto: si tratta di una vecchia Mercedes 240, classe 1977, di quelle che usava mio nonno, senza servo sterzo, che abbisognano di polsi agricoli e molta pazienza. C’e’ piu’ sabbia nel baule che in una tasca di un cammelliere del Sahara, l’odore di nafta si frammischia a quello del giornale con cui ha avvolto doviziosamente e con tanto di nastrino annodato, la basbousa. La normativa in materia di materiali a contatto con alimenti (pardon me! Food Contact Material, o meglio MOCA, materiali a contatto con alimenti), non vince la tradizione locale: chi se ne frega se il grasso della frutta secca o lo zucchero colante estraggono un po’ di inchiostro, vernici e altre sostanze dell’imballaggio. Questo argomento qui, e’ ancora una mera quisquiglia, anzi una stranezza da europeo bianco discendente dei colonizzatori. Il vento ultraterreno mi ricorda di essere fatta di carne: colo sudore e gioia della sorpresa; la basbousa si mangia a terra, mi faccio intenzionalmente dosare un quadretto di basbousa da Atif, a suo agio nell’abito locale grigio e larghissimo. Sono stregata dalla magia del momento. Atif ora (ma non per sempre) e’ amico e ancor piu’, padrone di casa e depositario di una antica usanza. Le posate rovinerebbero l’incanto. La ricetta sfida la modernita’ della catena del freddo, zucchero, semolino, miele, qualche goccia di vaniglia o di acqua di rose, una spolverata di frutta secca. Sia quest’ultima mandorle o pistacchi, o anacardi in granella, lo decide il paese di consumo, o piu’ semplicemente l’estro del pasticcere. Gia’ perche’ anche nel Middle East si deve fare i conti con il controllo di gestione e le disponibilita’ della dispensa. Superficie liscia, tostata come la pelle del mio amico, crepata da qualche fossa luccica di sciroppo. Addento, pronta per esplorazione sensoriale: la stucchevolezza della nota zuccherina arriva in testa, proprio in cima in cima, velocissima, come una droga in vena, ma poi e’ attenuata dal profumo fiorito del miele, sensazione piu’ complicata che lascia retrogusto di essenza, appena percettibile. Il croc della armellina di albicocche (la riconosco!) interrompe la melassa omogenea che impasta la lingua e il palato. E’ meravigliosa, con quel suo amaro pungente scatena il processo sinestesico, proprio come Proust e le sue madeleines….(E’ l’amaro che si odorava tra i banconi del lab di Chimica Inorganica II; ma l’anno prima del mio corso, un collega sintetizzo‘ i cianuri-come sali- per far dispetto alla fidanzata, iniettati in un cioccolatino omaggiato per San Valentino. Da Allora niente piu’ sintesi di cianuri in laboratorio,e io sono rimasta con il desiderio di quell’esperienza mancata e il ricordo dell’odore). Ricetta perfetta per sopravvivere alle flore microbiologiche africane: energia allo stato puro, da diluire con the’ denso e amaro o caffe’ tostato. Un quadretto tira l’altro; raggiungo presto l’estasi sensoriale e mentale. Ora che il sodalizio d’amicizia e’ consumato, possiamo dedicarci al lavoro. Penso alle vie delle nostre città italiane, che vendono alimenti di tutti i tipi, ma tutti uguali, che trasformano i viandanti in bipedi catatonizzati da locali, che altro non sono che mangimifici desolanti; penso ai social nework che ti dicono che hai migliaia di amici, ma nessuno che ti omaggia del suo tempo, senza scadenza. Atif si crogiola nel gestire questa condivisione curando ogni gesto di ospitalita’ ed e’ orgoglioso del mio sguardo catturato. “Whishikk Helloa alina” mi dice, “che la tua faccia porti la fortuna”. Sara’ sicuramente cosi’. Sah! gli replico- perfetto.
La miglior Basbousa al Cairo: Quando andate al Cairo, spegnete ogni giudizio e concedetevi una passeggiata a Zamalek: e’ un’isola sul Nilo. Immergetevi totalmente nella “zhacma” il caos di clacson, traffico esseri umani brulicanti. A Zamalek, nel quartiere della ambasciate c’e’ una pasticceria: e’ la Mandarina, con le pareti rivestite di maiolica azzurra, la porta usurata e molti pasticceri magri e sudati che ti servono rigorosamente, con le mani e il sorriso. Mangerete i migliori basbousa di tutto l’Egitto. Maa salama, con pace.
non ti smentisci mai.......sei perfetta così........
RispondiEliminacomplimenti
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